Quando Vice mi ha chiesto di scrivere un pezzo sul Mar Rosso ho pensato che dopo D.F Wallace non ci fosse più niente da dire sulle vacanze organizzate. Ma poi ho guardato i vantaggi della formula “Hard Inclusive” e ho accettato. Il Fayrouz Resort è un hotel a 5 stelle belga che ospita gente da tutta l’Europa del nord, e sta in mezzo al nulla, a cinque chilometri dall’aeroporto di Marsa Alam (proprietà dei tre figli del defunto sceicco denominato Il Magnifico), al bordo di una barriera corallina che accoglie una fauna che per fortuna è già ben documentata dal National Geographic e che, pur essendo la meraviglia naturale più variamente colorata della Terra, nulla c’entra con il turismo in Egitto. La gente non va veramente per vedere pesci picasso, barracuda, tartarughe o dugonghi (io comunque, nel dubbio, li ho visti tutti). E allora perché? Per rispondere a questa domanda ho dovuto starci una settimana.
È da sapere che qui una volta qui ci abitavano i beduini ai quali bastava buttare una rete in acqua per tirar su quintali di pesce (dei cui colori se ne sbattevano altamente, d’altronde come non capirli, nemmeno a noi fa tanta tenerezza la brillante pelle rosa del maiale, quando la pensiamo sotto la forma estetica di pancetta). Poi all’arrivo del primo di una lunga serie di capi di stato militari, come mi informa l’addetta alle relazioni con gli ospiti, Giuly, che da piazza Piola è approdata ad Al Quesir attraverso una malcelata strada di anoressia e bulimia e che ci accoglie con un cocktail all’ananas con fondo menta mentre ci indica una coppia di giovani anziani che, da un paese vicino a Gatwick sono venuti qui diciannove volte in tre anni, i beduini sono stati cacciati nel deserto per far spazio alle strutture alberghiere. Niente di male, tanto nel deserto ci sono i cammelli e molto spazio per piantare le tende e accogliere i turisti che fanno una pausa durante la motorata in quad. Già, perché da quando hanno scoperto che in Europa il sole è una merce rara soprattutto d’inverno, gli egiziani (popolo di antica sapienza, vedi alla voce “un discreto architetto + tanti schiavi = le Piramidi”) hanno intuito le potenzialità di quello che per loro era solo un nemico da cui difendersi. Con contorno di pesciolini. E così nasce il Mar Rosso.
In un posto come il Fayrouz la vita costa poco, molto poco. Facendo due conti qualcuno ha suggerito che con circa millecinquecento euro al mese una coppia di ceto medio può vivere nel lusso, mentre con quei soldi a Bruxelles devi scarpinare. Già, perché la formula All inclusive significa davvero TUTTO. In qualsiasi momento della giornata puoi scegliere se mangiare o bere ciò che vuoi, chiedere di farti rifare la stanza (spaziosa e accogliente), girare per giardini fioriti, stare in spiaggia, andare in palestra (con SPA), chiacchierare con i nuovi ospiti, che portano con sé nuove lingue, culture, volti e soprattutto storie, o comporre un quartetto d’archi, magari all’ombra delle palme (e qui non ci sono zanzare). Bene, ma che noia, si dirà. Giusto. Ecco il motivo per cui esiste l’alcol. La formula Hard inclusive consente di vivere costantemente sotto l’effetto del gin (rigorosamente locale), con un moderato sovrapprezzo. Certo, per il Negroni devi pagare, ma nulla è perfetto (a proposito, c’è anche un dottore, fisso, in caso di bisogno).
Se avete la carnagione un po’ più scura di quella di un bavarese, e siete fortunati, qualcuno vi proporrà “La via di Mohamed” (io l’ho letto, non è male, assomiglia alla Bibbia, all’inizio della storia c’è l’Altissimo che prende Abramo, e sua moglie, e ordine di uccidere il figlio e li mette nel deserto senza acqua, per poi all’ultimo dire che era tipo uno scherzo e allungare una borraccia, e allora automatiche eterne lodi all’Altissimo). Ma il più delle volte incrocerete persone che (pare che nel Nord Europa vada alla grande) vestono in maniera molto organizzata.
Gli italiani sono amati perché meno sgradevoli degli altri, all’aspetto, ma anche temuti, perché vogliono sempre spostare i tavoli, e poi discutono sul cibo. In ogni caso si fanno riconoscere per il volume delle loro voci. Quasi tutti gli altri invece girano a coppie come i carabinieri. E anche loro indossando la medesima divisa. Su questo punto purtroppo non ho una teoria.
La vita al Fayrouz è vivace, noi partiamo e arriviamo il sabato e la domenica, i tedeschi il martedì, belgi e francesi il giovedì e gli inglesi il venerdì, ma non c’è mai confusione e nulla sembra fuori posto anche perché il personale raccoglie ogni petalo di fiore non appena tocca terra, e ridipinge di nero il palco dell’anfiteatro ogni quattro settimane. Già, l’anfiteatro. Perché nel suo piccolo anche il Fayrouz ha un’animazione, nonostante se non te lo dicessero non te ne accorgeresti. La logica è: “Vuoi Elvis Costello alla Royal Albert Hall? Allora stai a Londra. Ma se ti accontenti di quattro ragazzi che ballano e fingono di cantare, sei il benvenuto”. Purtroppo non ho mai visto nessun evento della sera, perché mi sono fatto prendere dalla logica del tempo naturale e ho dismesso l’orologio. Ogni volta che sono passato dalla zona del divertimento, costruita sotto il livello del suolo per separarla acusticamente dagli altri spazi, lo spettacolo era appena finito e qualcuno mi sorrideva dicendomi “Thank you for coming”. Sì, la sensazione di vivere dentro a un Truman show era piuttosto forte, e nemmeno la presenza dell’italiano che dice “Qui scatta la denuncia, eh” per il ritardo di un’ora nella consegna della camera, sembra disturbare la quiete sedata dell’ambiente. È tutto tranquillo. Tutto troppo tranquillo. Non mi piace.
Dopo il terzo giorno la mia routine si cristallizza. Alle 5 punto la sveglia e vado a vedere l’alba sul mare (ora ho capito perché lo chiamano “rosso”). Sarà l’ultima volta che vedo le lancette di un orologio. Poi barcollo verso la colazione e chiacchiero con i camerieri (conoscono tutti bene almeno tre lingue e propongono battute che fanno ridere), poi con alcuni nuovi arrivati. Quindi spiaggia. Sdraiato su un materasso che fa sembrare il mio letto di Milano un tavolo operatorio, osservo le rare ma interessanti bellezze femminili e immagino cosa farei se non fossi obbligato alla morigeratezza del reporter. A volte passeggio verso la baia a fianco (circa 1km) dove nuotare tra le tartarughe grandi tre volte me mi riporta a un’era primordiale, con seguente sovrapproduzione di endorfine. Dal mio iPad (free Wi-Fi ovunque, chiaramente) apprendo di luoghi dove scoppiano bombe tra i bambini o si rieleggono presidenti quasi novantenni. Sento che ciò dovrebbe mettermi angoscia. So anche che sulla strada tra Marsa Alam ed El Quesir, nel tratto dove soggiorniamo noi, sono di pattuglia molte unità dell’esercito, e credo che l’effetto “bolla” dovrebbe suscitare in me un sentimento negativo. In camera scrivo, nella brezza del pomeriggio di aprile. Mai meno di 15 mai più di 30 gradi. Secco. Poi rimangio. Molta frutta (le banane sono ottime). Ogni giorno il cuoco prepara dei menu dedicati a una nazione europea. Il buffet è sempre pulito, e non finisce mai niente. Il profumo è lo stesso che senti per le strade di New York. Sono circondato principalmente da vecchi, di ogni religione e razza, di ogni orientamento sessuale, probabilmente qualcuno era a scuola con l’ex Papa. Vestono sempre tutti uguale. Non capisco.
Imparo un po’ di arabo. Leggo libri sul Corano. Leggo il Corano stesso. Al tramonto mi viene quasi da cercare la Mecca. Sarà perché mi hanno detto che, siccome ho la barba, credo, ho l’aspetto di una persona buona ( = che può essere convertito). Parlo di calcio con degli inglesi, di politica con degli svizzeri e di birra con dei danesi. Gli svedesi mi mostrano delle nuove creme solari che proteggono ma lasciano abbronzare un po’. Coi belgi mi viene solo di occuparmi di miniere e pedofilia, tuttavia mi sforzo di buttarmi sull’annosa questione dell’antipatia dei francesi, con annessa distinzione tra i parigini e “gli altri”. Tutto ciò che non tollero. Tutto esattamente come David Foster aveva raccontato, compresa la comica figura del Direttore, uno molto elegante e gentile che fuma shisha tutto il tempo e che il personale chiama “il mafioso”. Eppure non entro in angoscia. Non mi sento oppresso e non desidero scappare. Giovedì sera mentre osservo una pioggia di stelle cadenti sorseggiando birra e ascoltando Damien Rice con il mio iPod, finalmente colgo il punto.
Ci hanno sempre detto che devi conquistarti quel che hai, che i figli dei ricchi sono infelici e in genere si suicidano, che a chi ha la pancia piena gli si spegne la vita. Sono anni che sento quella morale, e in fondo credo di esserne convinto anche io. E invece il cazzo. Ci vogliono fregare. Vogliono farci credere che essere fortunati sia una sfortuna, che essere serviti e riveriti renda deboli, che leggere Madame Bovary sia meglio di una bottiglia di Amarone. E ci stano riuscendo! Ma è qui, sul Mar Rosso, che si è aperto il fronte della rivoluzione low cost, che migliaia di uomini e donne silenziosamente raggiungono la Consapevolezza, percepiscono la fondamentale Verità: stare bene è meglio che stare peggio. Nonostante ce la mettiamo tutta per cambiarci, restiamo degli animali (e sto usando la parola in senso letterale). Veglia, alimentazione, riposo, evacuazione, accoppiamento, etilismo, calcio, sono questi i bisogni da soddisfare prima di ogni altra cosa e al massimo livello; il resto verrà da sé. La qualità con cui verremo saziati provocherà diversi livelli di benessere. Al Fayrouz io sono approdato a una soglia molto elevata. Ciò fa di me un parassita? Forse. In quello stato non potrei scrivere nemmeno uno dei Quarantanove racconti? Molto probabile (ma non solo per quello). Laggiù Van Gogh non avrebbe mai nemmeno preso in mano un pennello? Probabile. Anzi sicuro. E sti cazzi? Per la modica cifra di … (contattate il vostro agente di viaggio), invece che combattere con l’omino della raccolta differenziata o, peggio, quello delle tasse, potrete dedicarvi a tenere per mano la persona che amate, mentre passeggiate verso una crepe alla banana, in un’ora imprecisata del giorno (o della notte).
Ecco di cosa parliamo quando parliamo di Mar Rosso. Finché un giorno i russi arriveranno anche qui.
Stefano D’Andrea